Domenica 9 Maggio 2021

Rimanete nel mio amore

Quella che Gesù offre ai discepoli non è una relazione fugace, legata a particolari momenti di bisogno. La profondità del suo amore si è manifestata sulla croce, quando egli ha dato la sua vita per noi. A chi lo ama Gesù domanda di rispondere al suo amore con un amore fedele, che affronta senza timore la durata, il passare del tempo, le diverse situazioni che si presentano, anche le prove e i sacrifici. A chi lo ama Gesù chiede di “osservare”, cioè di mettere in pratica i suoi comandamenti. Non solo belle parole, dunque, professioni di fede teoriche, ma fatti concreti, scelte, decisioni talora costose, che innervano il tessuto della vita. E’ esattamente il contrario di quella sorta di “relazione magica” che taluni ritengono di poter intrattenere con Dio.
Si dimenticano di Dio per molto tempo, ignorano la sua Parola e la sua presenza, ma poi “pretendono” che egli voli in loro soccorso appena si trovano a confronto con
una prova. Conducono la loro esistenza badando solamente al loro tornaconto personale, ma poi “esigono” che Dio ripari le conseguenze di tante scelte sbagliate, intervenendo con qualche soluzione miracolosa.
Non è questo senz’altro quello che Gesù intende quando invita i suoi a “dimorare nel suo amore”. E non è presuntuoso imporre a Dio i propri ritmi, le proprie sensazioni, i propri bisogni? Siamo veramente certi che è così che si può incontrare il Dio vivo e vero, colui che cambia la nostra vita e ci strappa al potere del male?
Un rapporto sbagliato con Dio non può generare pace e pienezza di vita, gioia e armonia. Non perché Dio non mantiene le sue promesse, ma perché noi gli imponiamo
un contatto del tutto marginale, gli impediamo di entrare in modo significativo nella nostra esistenza. Il Dio vivo e vero ci domanda di “rimanere” nel suo amore perché egli possa “dimorare” in noi e trasfigurare la nostra esistenza.

Domenica 2 Maggio 2021

Cristiani innestati in Gesù che hanno portato molto frutto…

“Io sono la vite, voi i tralci” (Giov. 15,5)

«La felicità non consiste nell’accumulare ricchezze, ma nel regalarle e condividerle: un gesto, un sorriso, un aiuto agli altri».
Nadia Munari, la volontaria di Schio uccisa a Chimbote, in Perù, nei giorni scorsi, quelle parole – dette a una radio peruviana tempo fa – le ha rese carne. Vita vissuta. Dei suoi 50 anni, più di metà li ha passati a servizio dei poveri.
Quando l’Organizzazione umanitaria “Mato Grosso” decise di aiutare i poveri di Chimbote con una casa famiglia per ragazzi di strada e degli asili, ci voleva un responsabile, e nessuno si fece avanti. Finché Nadia disse a padre Ugo: «Se vuoi, vado io». Quel «Vado io» è il rifiuto dell’analisi teorica a vantaggio delle maniche rimboccate, significa non attendere le condizioni più propizie (che per gli indecisi non arriveranno mai), in favore di un impegno in prima persona.
«Vado io» fu l’ultima frase pronunciata da padre Daniele Badiali, un altro missionario proveniente da Faenza, la sera in cui, era il marzo 1997, il suo rapitore fermò la jeep sulla quale egli era a bordo con altri otto. Padre Daniele bloccò la ragazza destinata a essere presa in ostaggio, dicendo: «Tu rimani. Vado io».
A partire da sabato, le centinaia di volontari dell’Operazione Mato Grosso disseminati in America Latina aggiungeranno il nome di Nadia alla preghiera quotidiana, rivolta ai «martiri della carità» Daniele Badiali e Giulio Rocca, quest’ultimo ucciso dai terroristi di Sendero Luminoso nel 1992. Proprio Giulio, che era stato trasformato dalla compagnia di padre Ugo e dalla vita con i poveri al punto da chiedere di entrare in seminario (lui, partito ateo dalla sua Valtellina!), ha lasciato lettere che riecheggiano le parole di Nadia: «Dare via! Dare ai poveri, aiutare gli altri, dando prima le nostre cose e il nostro tempo, poi sempre di più, fino a dare tutto, ma proprio tutto, fino a darsi completamente. Che vuol dire lasciarsi mettere in Croce». Spesso ho sentito definire «esagerata» la passione per i poveri che li muove. Sì, è esagerata. Ma solo per chi non ha capito che a muovere
questi ‘sessantottini del Vangelo’ sono gli stessi, genuini ideali che scossero le migliori energie all’epoca (era il 1967) in cui padre Ugo diede vita a una straordinaria avventura di carità che ancora dura. Quando disse il suo ‘sì’, Nadia era a Chambara, sulle Ande: aveva il ‘suo’ asilo e le ‘sue’ maestre. Avrebbe potuto farseli bastare. Si è presa in carico sei asili là, nelle baraccopoli di Chimbote, buttandosi nella nuova avventura con entusiasmo, con il desiderio profondo e bruciante di spendersi. Totalmente, senza riserve. Nonostante i propri, inevitabili limiti. Nonostante la carità possa dare fastidio ai potenti e a chi detiene il monopolio della violenza. «Siamo in un campo minato», racconta un volontario dal Perù. Oggi il dolore è un’onda che pare uno tsunami. I dubbi affollano la mente, gli interrogativi assediano il cuore. Perché? Perché un innocente deve morire, mentre dà tutta se
stessa per gli ultimi? E ora, che fare? Rimanere o andarsene? Le stesse, implacabili domande che l’Omg si trovò ad affrontare il giorno dopo l’uccisione di Giulio e di Daniele. Ma le parole di Nadia continuano a risuonare: « Aiutiamoci a essere contenti in un mondo dove pochi lo sono » . Risuonano come un invito. Come un appello.
Fazzini, dal quotidiano Avvenire del 27 aprile 2021)

Domenica 25 aprile 2021

Il buon pastore

“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore”
(Giovanni 10,14)

L’immagine forse è diventata, col passare del tempo, scontata. Eppure basta abbandonare solo un attimo il testo evangelico ed immergersi nell’attualità, correre le pagine dei giornali, per accorgersi della sua immutata novità, della sua forza dirompente.
Di capi dei popoli che si atteggiano a liberatori la storia non è mai priva: né quella di oggi, né quella di ieri. Scimmiottando i cosiddetti “grandi” dell’antichità, fanno passare per scelte coraggiose quelli che sono errori nefasti, spacciano per sapienza quella che è solo astuzia, utile per raggiungere i propri interessi.

Quando si spogliano dei panni altisonanti appaiono per quello che sono, poveri esseri che vorrebbero “farla da padroni”.
Di seduttori, più o meno dichiarati, se ne vedono ancora tanti in giro. Domandano fiducia, esigono fedeltà, chiedono totale disponibilità, ma le loro intenzioni non sono così nitide come vorrebbero far credere.
La libertà che offrono è sempre sotto pesante tutela, la possibilità di “smarcarsi” dalle loro parole d’ordine è molto labile.
Dopo questo bagno di attualità, se ci immergiamo nel Vangelo, avvertiamo subito un’aria di novità, di liberazione e di benessere.
Gesù sceglie l’immagine del buon pastore proprio per questo.
Non ha interessi da difendere, non ha proprietà o beni da proteggere.
Affronta ogni pericolo a mani nude, rischiando la propria vita, senza cercare nessun privilegio e nessuna protezione particolare.
A muoverlo è l’amore, un amore smisurato, tanto che è disposto a dare la propria vita, non a chiedere quella degli altri. A muoverlo è un amore che non è generico, ma personale. Conosce le sue pecore una per una, le difende dai pericoli, prende a cuore la loro esistenza.
Non è decisamente un pastore comune, Gesù! Il suo atteggiamento non è affatto scontato come può sembrare di primo acchito. Anzi, è del tutto eccezionale, fino ad essere incomprensibile per chi ragiona con la mentalità del mondo.
Solo l’amore può spiegarlo.

Domenica 18 aprile 2021

Riconoscere il Cristo risorto

Non è facile credere alla risurrezione di Gesù. Non è immediato e spontaneo accogliere il Vangelo della Pasqua. A questo proposito il racconto di oggi ci mostra con sano realismo tutta la fatica che fanno gli apostoli a credere al Risorto. Gesù vede il loro turbamento e i loro dubbi e proprio con la sua presenza cerca di rincuorarli e di incoraggiarli.
Ecco allora gli incontri con il Risorto. Di persone diverse, in frangenti differenti. Maria di Magdala nel giardino dov’era la tomba, gli apostoli nel cenacolo, i due di Emmaus lungo la via…
Certo, la presenza di Gesù vince i dubbi di Tommaso e gli fa esprimere la prima professione di fede. Ma c’è un ulteriore passaggio da compiere.
“Aprì loro la mente per comprendere le Scritture”. Il racconto di oggi lo dice in modo esplicito e cita la legge di Mosè, i Profeti e i salmi.

Sono le Scritture che permettono di decifrare ciò che è accaduto a Gesù, il senso di tutto. Sono le Scritture che un po’ alla volta ci mettono nella condizione di accogliere la strada scelta da Dio per salvare l’umanità.
Sono le scritture che ci fanno superare le difficoltà che proviamo davanti al nuovo che Dio mette sotto i nostri occhi.
Ecco dunque perché la comunità cristiana celebra di domenica in domenica l’Eucaristia.
Non si limita a ripetere il gesto che Gesù ha compiuto nell’ultima cena e che ha affidato ai suoi come testamento. In quella stessa celebrazione apre la Scrittura, Antico e Nuovo Testamento, per comprendere, per cogliere il senso di tutto e per essere in grado di riconoscere il Risorto nel suo cammino. L’esperienza delle fede pasquale e, tuttavia, una esperienza che mobilita, diventa una missione.
I discepoli rincuorati e incoraggiati, illuminati e fiduciosi prendono le strade del mondo per portare a tutti il messaggio che salva, per annunciare la bontà e la misericordia di Dio.

Domenica 11 Aprile 2011

Il bisogno di vedere e di toccare


“Metti qui il tuo dito…tendi la tua mano
e mettila nel mio fianco”. (Giovanni 20,27)

Abbiamo tutti, come Tommaso, il bisogno di vedere e di toccare.
Le parole degli altri non ci possono bastare.
Vogliamo fare esperienza diretta della realtà. E questo
soprattutto quando si tratta di una persona che abbiamo amato, che
ci è stata strappata in modo violento e drammatico e che ora ci
dicono sia risorta.
Il dubbio di Tommaso, dunque, lo comprendiamo bene. Quante
volte l’abbiamo avvertito anche noi, e talvolta in modo lancinante.
Gesù offre a Tommaso questa possibilità: “Metti qui il tuo dito
e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco;
e non essere incredulo, ma credente!”

Il racconto non dice se Tommaso abbia afferrato poi questa
possibilità, non dice se poi in effetti abbia toccato i segni della
passione per sincerarsi, per essere sicuro che il Risorto fosse proprio
lui che era stato inchiodato alla croce.
Il Vangelo riferisce, invece, la sua professione di fede, la più
semplice e la più diretta che si possa immaginare: “Mio Signore e mio
Dio!
Tommaso, probabilmente, non ha più bisogno di toccare: gli è
bastato incontrare personalmente Gesù:
Anche a noi questo può accadere, ma senza vedere e senza toccare.
Perché il Risorto non ha più il corpo di prima e dunque la sua non è
una presenza fisica, che si impone.
Ci vuole la fede per accorgersi di Lui.
Ci vuole la fede per cogliere la sua presenza.
Ci vuole la fede per incontrarlo.
In caso contrario gli passiamo accanto distratti, presi da altre cose.
In caso contrario non riusciamo neppure a vedere le tracce.
Un percorso più duro? Un difficoltà in più?
Gesù ha un modo diverso di vedere le cose.
Dice: “beati” a “quelli che non hanno visto e hanno creduto”.
Beati, cioè felici, fortunati, perché sanno rallegrarsi di questa
presenza nuova offerta a tutti.
Beati perché hanno occhi buoni, gli occhi della fede, per
riconoscere il Cristo che li visita nel tessuto della loro vita quotidiana.
Beati perché immuni da qualsiasi istinto di possesso e liberi di
accogliere il dono di Dio come si presenta.
Beati perché disposti ad abbandonarsi al Cristo senza fare tante
domande.
La fede dei discepoli, in questo caso, raggiunge la fede di Maria
quando l’angelo le chiede di diventare la madre del Figlio di Dio.
Non le è possibile vedere e toccare, le viene solo offerto un segno:
quel figlio che anche Elisabetta, sterile e già avanti negli anni, attende.
Maria dice il suo sì, mettendo la sua vita nelle mani di Dio.
E’ quello che ogni credente è chiamato a fare, grazie ai segni che
gli vengono offerti: grazie all’esperienza di Cristo che parla attraverso
il Vangelo, che agisce nei santi sacramenti, che ci continua a visitare
attraverso i poveri.